|
Prof Andrea Giardina
La schiavitù nell'Antica Roma
(1)
Come uno schiavo a Roma otteneva la libertà?
Con il termine manumissio, «manomissione» i Romani
indicavano latto attraverso il quale il padrone concedeva
la libertà allo schiavo (il padrone rinunciava, tramite quellatto,
alla potestà, detta manus, che aveva sullo schiavo). A Roma,
la liberazione di uno schiavo comportava una procedura abbastanza
semplice: la decisione del padrone era praticamente insindacabile
e richiedeva una banale approvazione formale da parte di un magistrato.
Ma il padrone poteva liberare lo schiavo anche per testamento. Lo
schiavo liberato, o liberto, era un «quasi cittadino»:
poteva votare nelle assemblee ma non essere eletto; i suoi figli,
invece, diventavano cittadini di pieno diritto, cittadini romani
a tutti gli effetti: lintegrazione degli ex schiavi nella
società romana era molto più rapida che in altre società.
I Romani si vantavano di essere lunica comunità che
integrava così facilmente gli schiavi e questa caratteristica
era un aspetto importante della loro «autorappresentazione».
Unici tra i popoli antichi, i Romani valorizzavano addirittura lelemento
schiavile delle proprie origini: dicevano, per esempio, che la madre
del grande re Servio Tullio era una schiava; raccontavano inoltre
che Romolo, per dare corpo alla nuova città, accolse in un
recinto sacro chiamato «asilo» individui di ogni provenienza,
schiavi compresi: da questo nucleo avrebbe avuto origini il primo
popolamento della città.
La schiavitù romana aveva dunque due volti: uno è
quello, terribile, dello sfruttamento, delle punizioni, delle crocifissioni
(chi non ricorda Spartacus di Kubrick?). Laltro è quello
della liberazione relativamente facile e dellintegrazione.
Questa caratteristica della società romana colpì molto
anche gli stranieri. Nelletà della seconda guerra punica
il re di Macedonia Filippo V, alleato di Annibale, scrisse una lettera
agli abitanti di una città greca per incitarli a concedere
più facilmente la cittadinanza agli stranieri: «Fate
come i Romani, egli scrisse, che quando liberano gli schiavi li
immettono nella cittadinanza. In questo modo hanno accresciuto la
loro patria e sono diventati molto potenti». Il re di Macedonia
coglieva un punto fondamentale. Gli schiavi liberati, infatti, diventavano
soldati pronti a servire negli eserciti romani. Roma ricorreva ampiamente
alla pratica della manomissione e quindi aveva eserciti più
numerosi.
Nei complessi legami psicologici esistenti tra schiavo e padrone
la prospettiva della liberazione svolgeva una funzione preziosa:
rendeva gli schiavi desiderosi di acquisire meriti presso il padrone
e li spingeva ad assumere comportamenti docili e sottomessi. Ma
questo valeva quasi esclusivamente per gli schiavi domestici o comunque
per quelli che avevano più frequenti contatti con il padrone.
Per gli altri e si trattava della grande maggioranza
la schiavitù era una condizione a vita. Le concezioni romane
della schiavitù non differivano da quelle greche: anche a
Roma lo schiavo era considerato un oggetto di proprietà del
padrone, che poteva essere bastonato o ucciso a suo arbitrio.
In Italia gli schiavi erano moltissimi: non abbiamo dati precisi,
ma è probabile che essi rappresentassero da un terzo alla
metà della popolazione complessiva. Un così grande
numero di schiavi, tenuti spesso in condizioni di estrema sofferenza,
determinava una situazione perennemente esplosiva. Particolarmente
gravi furono le rivolte esplose in Sicilia tra il 139 e il 132 a.C.
e la rivolta di Spartaco, che insanguinò lItalia tra
il 73 e il 71 a.C.
|