NOVA  ROMA Interview

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Intervista di Febbraio 2005

Prof Andrea Giardina
La schiavitù nell'Antica Roma

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Come uno schiavo a Roma otteneva la libertà?

Con il termine manumissio, «manomissione» i Romani indicavano l’atto attraverso il quale il padrone concedeva la libertà allo schiavo (il padrone rinunciava, tramite quell’atto, alla potestà, detta manus, che aveva sullo schiavo). A Roma, la liberazione di uno schiavo comportava una procedura abbastanza semplice: la decisione del padrone era praticamente insindacabile e richiedeva una banale approvazione formale da parte di un magistrato. Ma il padrone poteva liberare lo schiavo anche per testamento. Lo schiavo liberato, o liberto, era un «quasi cittadino»: poteva votare nelle assemblee ma non essere eletto; i suoi figli, invece, diventavano cittadini di pieno diritto, cittadini romani a tutti gli effetti: l’integrazione degli ex schiavi nella società romana era molto più rapida che in altre società. I Romani si vantavano di essere l’unica comunità che integrava così facilmente gli schiavi e questa caratteristica era un aspetto importante della loro «autorappresentazione». Unici tra i popoli antichi, i Romani valorizzavano addirittura l’elemento schiavile delle proprie origini: dicevano, per esempio, che la madre del grande re Servio Tullio era una schiava; raccontavano inoltre che Romolo, per dare corpo alla nuova città, accolse in un recinto sacro chiamato «asilo» individui di ogni provenienza, schiavi compresi: da questo nucleo avrebbe avuto origini il primo popolamento della città.
La schiavitù romana aveva dunque due volti: uno è quello, terribile, dello sfruttamento, delle punizioni, delle crocifissioni (chi non ricorda Spartacus di Kubrick?). L’altro è quello della liberazione relativamente facile e dell’integrazione. Questa caratteristica della società romana colpì molto anche gli stranieri. Nell’età della seconda guerra punica il re di Macedonia Filippo V, alleato di Annibale, scrisse una lettera agli abitanti di una città greca per incitarli a concedere più facilmente la cittadinanza agli stranieri: «Fate come i Romani, egli scrisse, che quando liberano gli schiavi li immettono nella cittadinanza. In questo modo hanno accresciuto la loro patria e sono diventati molto potenti». Il re di Macedonia coglieva un punto fondamentale. Gli schiavi liberati, infatti, diventavano soldati pronti a servire negli eserciti romani. Roma ricorreva ampiamente alla pratica della manomissione e quindi aveva eserciti più numerosi.
Nei complessi legami psicologici esistenti tra schiavo e padrone la prospettiva della liberazione svolgeva una funzione preziosa: rendeva gli schiavi desiderosi di acquisire meriti presso il padrone e li spingeva ad assumere comportamenti docili e sottomessi. Ma questo valeva quasi esclusivamente per gli schiavi domestici o comunque per quelli che avevano più frequenti contatti con il padrone. Per gli altri – e si trattava della grande maggioranza – la schiavitù era una condizione a vita. Le concezioni romane della schiavitù non differivano da quelle greche: anche a Roma lo schiavo era considerato un oggetto di proprietà del padrone, che poteva essere bastonato o ucciso a suo arbitrio.
In Italia gli schiavi erano moltissimi: non abbiamo dati precisi, ma è probabile che essi rappresentassero da un terzo alla metà della popolazione complessiva. Un così grande numero di schiavi, tenuti spesso in condizioni di estrema sofferenza, determinava una situazione perennemente esplosiva. Particolarmente gravi furono le rivolte esplose in Sicilia tra il 139 e il 132 a.C. e la rivolta di Spartaco, che insanguinò l’Italia tra il 73 e il 71 a.C.

 

 

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