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Prof A. Poliseno
Stoicismo nell'Antica Roma
(1)
I Romani hanno modificato lo Stoicismo rispetto all'eredità
greca? Come?
Cn. Equitius Marinus
Lo stoicismo prese il nome dal portico Stoà (stoà
poikile) decorato da Polignoto, dove fu esposta la dottrina. Non
si trattò di una scelta libera, ma di una necessità.
Il suo fondatore, Zenone di Cizio nell'isola di Cipro, non potendo
possedere immobili in Atene in quanto straniero, non ebbe un luogo
preciso adibito all'insegnamento, come l'ebbero l'Accademia, il
Liceo, il Giardino, e fu costretto ad esporre la sua dottrina in
un luogo pubblico che, peraltro, gli portò fortuna, perché
godette di una straordinaria fama per diversi secoli.
L'insegnamento della dottrina stoica, forse anche perché
svolto in un luogo pubblico, non ebbe un'organizzazione rigida:
già ai suoi inizi si aprì all'apporto di diversi pensatori,
anche di formazione cinica. Non fu un'opera di getto di un solo
filosofo, ma frutto del contributo di molti pensatori che le impressero
un forte dinamismo evolutivo, apportandovi sensibili modificazioni
e adattamenti. Tanto che oggi, nella storia della Stoà, tutti
ritengono necessario distinguere tre periodi:
1) "Antica Stoà" (fine del IV a tutto il III secolo
a. C). Principali esponenti furono Zenone, Cleante di Asso e Crisippo
di Soli. Nessuno della triade ebbe tanto prestigio da dare il nome
al sistema. Fondatore storico fu Zenone, però la sua organizzazione
scientifica fu opera soprattutto di Crisippo. Tutta la tradizione
indiretta, che ci ha permesso di conoscere aspetti rilevanti della
dottrina, attinse a piene mani alle sue innumerevoli opere ;
2) "Media Stoà" (II-I secolo a.C.). Panezio e
Posidonio attenuarono il rigore della dottrina originaria con infiltrazioni
eclettiche;
3) "Nuova Stoà" o romana. Seneca, Epitteto, Marco
Aurelio rivolgono l'attenzione al comportamento etico, alla meditazione
morale con forti toni religiosi.
Non è difficile intuire che una dottrina disponibile a nuovi
apporti non poteva rimanere sorda a quelli qualitativamente rilevanti
della cultura romana. Sarebbe però impossibile comprenderli
senza avere presenti gli aspetti essenziali della dottrina stoica
ed una visione della sua evoluzione.
Il sistema ricalcava nella struttura quello aristotelico con ridotte
esigenze speculative e si articolava in logica, fisica, etica. Però
la logica non aveva più il compito di ricercare l'intima
struttura della verità, ma indagava su come le nostre facoltà
possono giungere alla conoscenza. La fisica non aveva più
un forte addentellato metafisico, perché il movimento dei
corpi non postulava un primo motore divino, ma il principio del
moto era insito alla natura stessa come forza che animava la materia.
La logica e la fisica erano propedeutiche alla dottrina della moralità.
La caratterizzazione morale della dottrina era una sua peculiarità
originaria, ed i padri fondatori, per indicare questa sua centralità,
fecero ricorso a delle immagini che sono rimaste celebri. Secondo
Crisippo nell'organismo della scienza la fisica forma la carne,
la logica rappresenta le ossa e i nervi , l'etica indica l'anima.
In un'altra metafora, la logica era assimilata al guscio, la fisica
alla chiara, l'etica al tuorlo dell'uovo. Una terza immagine, per
indicare il rapporto che lega fra loro le tre parti, ricorre al
frutteto, nel quale la logica corrisponde al muro di cinta, gli
alberi rappresentano la fisica, i frutti, che costituiscono la ragione
di tutto l'impianto, rappresentano l'etica. In tutte le immagini
l'etica figura come la parte centrale.
Viene da chiedersi: perché tutto questo interesse per la
dottrina morale? L'appello ai corsi e ricorsi storici è una
risposta tanto generica quanto tautologica.
La conquista macedone della Grecia, con la vittoria di Filippo a
Cheronea (338 a.C.) e le successive vittorie di Alessandro Magno
(+nel 323) posero fine alla storia greca e dettero inizio a quella
ellenistica, Il termine ellenismo fu coniato da G.Gustavo Droysen
per indicare la diffusione della civiltà greca su tutti i
territori conquistati, in contrapposizione al termine alessandrinismo,
che risultava riduttivo, privilegiando in modo eccessivo il contributo,
pur notevole, che la città di Alessandria dette alla diffusione
della cultura ellenistica. Il verbo ellenizzare sottolineava i caratteri
di una cultura riflessa di portata mondiale.
Il sogno di Alessandro di una monarchia universale, divina, fece
crollare l'importanza socio politica della polis, tolse al cittadino
le certezze che gli dava la sua città con la partecipazione
attiva alla vita politica e lo proiettava in un mondo senza confini,
tra nuovi popoli e razze differenti. La nuova dimensione politico-culturale
lo elevava all'ideale del cosmopolitismo, però contemporaneamente,
divenuto suddito smarrito, individuo solitario, in uno stato che
non sentiva suo, lo spingeva a chiudersi in se stesso. Anzi, spesso,
la rivendicazione dell'autonomia della sua individualità
lo portava agli eccessi dell'individualismo e dell'egoismo.
L'uomo ellenistico aveva perciò bisogno di una guida per
la propria vita quotidiana, di un sistema per conquistare una felicità
personale. La medicina più idonea parve la filosofia che,
per l'esaurimento del vigore speculativo, aveva abbandonato l'interesse
puramente teorico del sapere per il sapere. Ritenne suo compito
dare all'uomo smarrito una risposta alla sua domanda di felicità.
Il filosofo si offrì come maestro di vita, rinunziando alla
speculazione teorica, per assumere la veste della saggezza, che
Epicuro, orgogliosamente, dichiarò superiore alla sapienza.
E Seneca, con non minore convinzione, affermò che la vera
filosofia è quella che si incarna nel nostro modo di essere
nec philosophia sine virtute est, nec sine philosophia virtus.
Sia l'epicureismo che lo stoicismo offrivano allo smarrito uomo
ellenistico la felicità. Poiché, per la dottrina epicurea,
l'istinto originario è la conservazione e l'incremento dell'essere,
bene è ciò che conserva e incrementa il nostro essere,
mentre il male è ciò che lo danneggia e lo diminuisce.
Per gli stoici, poiché l'uomo è insieme di natura
animale e razionale, può attendere a soddisfare le esigenze
dell'una o dell'altra componente della sua natura. Il bene morale
è ciò che esaudisce le esigenze del logos che è
in noi presente; il male ciò che lo danneggia. Il vero bene
dell'uomo è solo la virtù, il vero male solo il vizio.
Azioni moralmente perfette sono quelle compiute secondo il logos,
mentre quelle ad esse contrarie sono vizi o errori morali. Fra questi
due gruppi di azioni ve ne sono molte "indifferenti",
che se compiute conformemente a natura, vengono dette "azioni
convenienti" o "doveri". Ciò che comandano
le leggi sono dei "doveri", che il saggio rende "azioni
morali perfette ", perché ha possibilità di avvertire
che esse sono espressione della Legge eterna, mentre gli altri uomini
compiono solo "azioni convenienti".
Fu merito di Panezio avere valorizzato il concetto di dovere, tanto
che Cicerone riprodusse nel "De officiis" la sua opera
"Su i doveri" e attinse a lui anche per altri suoi scritti.
Comunque, il concetto di "officium" è di Panezio
, che pose come guida del comportamento etico la natura umana nel
suo complesso e non solo la sua razionalità. La natura individuale
non è perfetta, ma tende alla perfezione e non esclude il
piacere, purché non in contraddizione con la ragione universale.
Il suo concetto di dovere acquista una dimensione pragmatica e diviene
un aspetto fondamentale della concezione morale del mondo romano.
Posidonio chiarì che l'anima partecipa dell'immortalità
del logos, ma riflette anche le interferenze del corpo. Così
le passioni sono un dato naturale e contribuiscono all'equilibrio
dell'universo. Non bisogna dimenticare che Posidonio morì
il 51 a.C. e che nella sua opera Storia dopo Polibio, trattò
il periodo compreso fra il 145 e 85 a.C. e riprese l'idea polibiana
che considerava il dominio di Roma come una necessità imposta
dagli eventi e dalle strutture politiche. Questa visione concreta
del cosmopolitismo stoico divenne il fondamento teorico della concezione
universalistica dell'impero romano.
Rispondere alla domanda: cosa recepì la cultura romana dallo
stoicismo? Non è facile, perché l'incontro tra culture
è sempre un incontro osmotico. Si arricchiscono e impoveriscono
insieme.
La dottrina stoica, eminentemente etica, trovò un terreno
adatto nella cultura romana che si caratterizza per la subordinazione
delle teorie alla pratica. Fu bene accolta perché riteneva
che il cittadino doveva partecipare alla vita politica e non isolarsi;
in più, in nome della razionalità universale, offriva
una giustificazione teorica al governo monarchico, e con il suo
cosmopolitismo legittimava un impero senza confini
Quando entrò a Roma, nell'ultimo periodo della repubblica,
subì notevoli attenuazioni, soprattutto ad opera di Panezio
e Posidonio; questo processo di umanizzazione proseguì con
Seneca , mentre subì un'involuzione rigorista ad opera di
Epitteto e Marco Aurelio , quando tornò la servitù
civile.
Il pragmatismo romano fece in modo che la figura del saggio non
evaporasse in mitica astrattezza ma risultasse proficuo formando
forti caratteri e nobili personalità.
Lo stoicismo penetrò negli animi di gran parte degli esponenti
della classe dirigente. Le persone colte intuirono che gli aspetti
razionali della Stoà potevano dare una giustificazione teorica
alla loro concezione del vivere in modo perfetto. Contribuì
a far maturare la convinzione che "la sola virtù che
sia reale e sia virtù è la virtù imperfetta"
. Anche se non mancarono esempi eroici nell'affrontare la morte,
come Catone Uticense, Trasea Peto, per citare solo qualcuno.
Contribuì a regolare i rapporti giuridici con gli stranieri.
Con le conquiste di tanti paesi al ius civile si era aggiunto il
ius universale, e lo stoicismo fece maturare l'esigenza che anche
questo si richiamasse al ius naturale
Con la dichiarazione che tutti gli uomini sono capaci di raggiungere
la virtù mise in crisi i miti della nobiltà del sangue
e della superiorità della razza; con la concezione che la
schiavitù e la libertà dipendono dalla saggezza e
dall'ignoranza minò alla base l'istituto della schiavitù.
La patria del diritto non poteva ignorare il superamento della concezione
aristotelica che condannava a rimanere schiavo chi schiavo era nato
Contribuì lo sviluppo di vari aspetti della scienza; perfino
nella questione dell'analogia e della anomalia suggerì una
via d'uscita con una soluzione conciliativa.
Quanto alla religione, offrì una giustificazione del culto
tradizionale delle varie divinità, considerandole manifestazione
dell'unica divinità universale Il pensiero di Seneca è
intriso di un accentuato spirito religioso e spesso dà l'impressione
di anticipare alcune intuizioni cristiane. Ma senza il concetto
metafisico della creazione, come atto di un Essere trascendente
che resta al di sopra del creato, è difficile sfuggire alle
insidie del panteismo. Lo stesso Epitteto riconosceva che "se
l'uomo è dio, Dio non è Dio".
Lo stoicismo romano non riuscì a sciogliere un'altra antinomia
di fondo: il saggio, attento unicamente alla cura del logos che
ha dentro di sé, non può ammettere affetti e passioni
che turbino la sua apatia, ma l'uomo non può non amare se
stesso, i figli, i parenti. Come si concilia l'apatia con la simpatia
che il cosmopolitismo esige? Non è facile. Basti avere presente
che anche Spinoza, dopo molti secoli, convinto che l'amicizia affettiva
non sia conveniente all'uomo saggio, si appella ad un'amicizia razionale,
che comporta non poche difficoltà, non ultima la privazione
della libertà personale.
L'uomo è un essere complesso. La definizione aristotelica
di "sinolo di materia e forma" potrà non piacere,
ma è difficile rinnegarla. Chi lo considera un essere puramente
razionale, o un soggetto solo edonistico, distrugge la sua natura
di uomo.
Comunque lo stoicismo, pur con i suoi limiti, ha lasciato un segno
nei secoli. Ancora oggi, di chi sa sopportare le sofferenze che
la vita non risparmia a nessuno, si dice che lo fa stoicamente.
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