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Intervista di Marzo 2004

Prof A. Poliseno
Stoicismo nell'Antica Roma

(1)
I Romani hanno modificato lo Stoicismo rispetto all'eredità greca? Come?
Cn. Equitius Marinus

Lo stoicismo prese il nome dal portico Stoà (stoà poikile) decorato da Polignoto, dove fu esposta la dottrina. Non si trattò di una scelta libera, ma di una necessità. Il suo fondatore, Zenone di Cizio nell'isola di Cipro, non potendo possedere immobili in Atene in quanto straniero, non ebbe un luogo preciso adibito all'insegnamento, come l'ebbero l'Accademia, il Liceo, il Giardino, e fu costretto ad esporre la sua dottrina in un luogo pubblico che, peraltro, gli portò fortuna, perché godette di una straordinaria fama per diversi secoli.
L'insegnamento della dottrina stoica, forse anche perché svolto in un luogo pubblico, non ebbe un'organizzazione rigida: già ai suoi inizi si aprì all'apporto di diversi pensatori, anche di formazione cinica. Non fu un'opera di getto di un solo filosofo, ma frutto del contributo di molti pensatori che le impressero un forte dinamismo evolutivo, apportandovi sensibili modificazioni e adattamenti. Tanto che oggi, nella storia della Stoà, tutti ritengono necessario distinguere tre periodi:

1) "Antica Stoà" (fine del IV a tutto il III secolo a. C). Principali esponenti furono Zenone, Cleante di Asso e Crisippo di Soli. Nessuno della triade ebbe tanto prestigio da dare il nome al sistema. Fondatore storico fu Zenone, però la sua organizzazione scientifica fu opera soprattutto di Crisippo. Tutta la tradizione indiretta, che ci ha permesso di conoscere aspetti rilevanti della dottrina, attinse a piene mani alle sue innumerevoli opere ;

2) "Media Stoà" (II-I secolo a.C.). Panezio e Posidonio attenuarono il rigore della dottrina originaria con infiltrazioni eclettiche;

3) "Nuova Stoà" o romana. Seneca, Epitteto, Marco Aurelio rivolgono l'attenzione al comportamento etico, alla meditazione morale con forti toni religiosi.

Non è difficile intuire che una dottrina disponibile a nuovi apporti non poteva rimanere sorda a quelli qualitativamente rilevanti della cultura romana. Sarebbe però impossibile comprenderli senza avere presenti gli aspetti essenziali della dottrina stoica ed una visione della sua evoluzione.
Il sistema ricalcava nella struttura quello aristotelico con ridotte esigenze speculative e si articolava in logica, fisica, etica. Però la logica non aveva più il compito di ricercare l'intima struttura della verità, ma indagava su come le nostre facoltà possono giungere alla conoscenza. La fisica non aveva più un forte addentellato metafisico, perché il movimento dei corpi non postulava un primo motore divino, ma il principio del moto era insito alla natura stessa come forza che animava la materia. La logica e la fisica erano propedeutiche alla dottrina della moralità.
La caratterizzazione morale della dottrina era una sua peculiarità originaria, ed i padri fondatori, per indicare questa sua centralità, fecero ricorso a delle immagini che sono rimaste celebri. Secondo Crisippo nell'organismo della scienza la fisica forma la carne, la logica rappresenta le ossa e i nervi , l'etica indica l'anima. In un'altra metafora, la logica era assimilata al guscio, la fisica alla chiara, l'etica al tuorlo dell'uovo. Una terza immagine, per indicare il rapporto che lega fra loro le tre parti, ricorre al frutteto, nel quale la logica corrisponde al muro di cinta, gli alberi rappresentano la fisica, i frutti, che costituiscono la ragione di tutto l'impianto, rappresentano l'etica. In tutte le immagini l'etica figura come la parte centrale.
Viene da chiedersi: perché tutto questo interesse per la dottrina morale? L'appello ai corsi e ricorsi storici è una risposta tanto generica quanto tautologica.
La conquista macedone della Grecia, con la vittoria di Filippo a Cheronea (338 a.C.) e le successive vittorie di Alessandro Magno (+nel 323) posero fine alla storia greca e dettero inizio a quella ellenistica, Il termine ellenismo fu coniato da G.Gustavo Droysen per indicare la diffusione della civiltà greca su tutti i territori conquistati, in contrapposizione al termine alessandrinismo, che risultava riduttivo, privilegiando in modo eccessivo il contributo, pur notevole, che la città di Alessandria dette alla diffusione della cultura ellenistica. Il verbo ellenizzare sottolineava i caratteri di una cultura riflessa di portata mondiale.
Il sogno di Alessandro di una monarchia universale, divina, fece crollare l'importanza socio politica della polis, tolse al cittadino le certezze che gli dava la sua città con la partecipazione attiva alla vita politica e lo proiettava in un mondo senza confini, tra nuovi popoli e razze differenti. La nuova dimensione politico-culturale lo elevava all'ideale del cosmopolitismo, però contemporaneamente, divenuto suddito smarrito, individuo solitario, in uno stato che non sentiva suo, lo spingeva a chiudersi in se stesso. Anzi, spesso, la rivendicazione dell'autonomia della sua individualità lo portava agli eccessi dell'individualismo e dell'egoismo.
L'uomo ellenistico aveva perciò bisogno di una guida per la propria vita quotidiana, di un sistema per conquistare una felicità personale. La medicina più idonea parve la filosofia che, per l'esaurimento del vigore speculativo, aveva abbandonato l'interesse puramente teorico del sapere per il sapere. Ritenne suo compito dare all'uomo smarrito una risposta alla sua domanda di felicità. Il filosofo si offrì come maestro di vita, rinunziando alla speculazione teorica, per assumere la veste della saggezza, che Epicuro, orgogliosamente, dichiarò superiore alla sapienza. E Seneca, con non minore convinzione, affermò che la vera filosofia è quella che si incarna nel nostro modo di essere nec philosophia sine virtute est, nec sine philosophia virtus.
Sia l'epicureismo che lo stoicismo offrivano allo smarrito uomo ellenistico la felicità. Poiché, per la dottrina epicurea, l'istinto originario è la conservazione e l'incremento dell'essere, bene è ciò che conserva e incrementa il nostro essere, mentre il male è ciò che lo danneggia e lo diminuisce.
Per gli stoici, poiché l'uomo è insieme di natura animale e razionale, può attendere a soddisfare le esigenze dell'una o dell'altra componente della sua natura. Il bene morale è ciò che esaudisce le esigenze del logos che è in noi presente; il male ciò che lo danneggia. Il vero bene dell'uomo è solo la virtù, il vero male solo il vizio. Azioni moralmente perfette sono quelle compiute secondo il logos, mentre quelle ad esse contrarie sono vizi o errori morali. Fra questi due gruppi di azioni ve ne sono molte "indifferenti", che se compiute conformemente a natura, vengono dette "azioni convenienti" o "doveri". Ciò che comandano le leggi sono dei "doveri", che il saggio rende "azioni morali perfette ", perché ha possibilità di avvertire che esse sono espressione della Legge eterna, mentre gli altri uomini compiono solo "azioni convenienti".
Fu merito di Panezio avere valorizzato il concetto di dovere, tanto che Cicerone riprodusse nel "De officiis" la sua opera "Su i doveri" e attinse a lui anche per altri suoi scritti. Comunque, il concetto di "officium" è di Panezio , che pose come guida del comportamento etico la natura umana nel suo complesso e non solo la sua razionalità. La natura individuale non è perfetta, ma tende alla perfezione e non esclude il piacere, purché non in contraddizione con la ragione universale. Il suo concetto di dovere acquista una dimensione pragmatica e diviene un aspetto fondamentale della concezione morale del mondo romano.
Posidonio chiarì che l'anima partecipa dell'immortalità del logos, ma riflette anche le interferenze del corpo. Così le passioni sono un dato naturale e contribuiscono all'equilibrio dell'universo. Non bisogna dimenticare che Posidonio morì il 51 a.C. e che nella sua opera Storia dopo Polibio, trattò il periodo compreso fra il 145 e 85 a.C. e riprese l'idea polibiana che considerava il dominio di Roma come una necessità imposta dagli eventi e dalle strutture politiche. Questa visione concreta del cosmopolitismo stoico divenne il fondamento teorico della concezione universalistica dell'impero romano.
Rispondere alla domanda: cosa recepì la cultura romana dallo stoicismo? Non è facile, perché l'incontro tra culture è sempre un incontro osmotico. Si arricchiscono e impoveriscono insieme.
La dottrina stoica, eminentemente etica, trovò un terreno adatto nella cultura romana che si caratterizza per la subordinazione delle teorie alla pratica. Fu bene accolta perché riteneva che il cittadino doveva partecipare alla vita politica e non isolarsi; in più, in nome della razionalità universale, offriva una giustificazione teorica al governo monarchico, e con il suo cosmopolitismo legittimava un impero senza confini
Quando entrò a Roma, nell'ultimo periodo della repubblica, subì notevoli attenuazioni, soprattutto ad opera di Panezio e Posidonio; questo processo di umanizzazione proseguì con Seneca , mentre subì un'involuzione rigorista ad opera di Epitteto e Marco Aurelio , quando tornò la servitù civile.
Il pragmatismo romano fece in modo che la figura del saggio non evaporasse in mitica astrattezza ma risultasse proficuo formando forti caratteri e nobili personalità.
Lo stoicismo penetrò negli animi di gran parte degli esponenti della classe dirigente. Le persone colte intuirono che gli aspetti razionali della Stoà potevano dare una giustificazione teorica alla loro concezione del vivere in modo perfetto. Contribuì a far maturare la convinzione che "la sola virtù che sia reale e sia virtù è la virtù imperfetta" . Anche se non mancarono esempi eroici nell'affrontare la morte, come Catone Uticense, Trasea Peto, per citare solo qualcuno.
Contribuì a regolare i rapporti giuridici con gli stranieri. Con le conquiste di tanti paesi al ius civile si era aggiunto il ius universale, e lo stoicismo fece maturare l'esigenza che anche questo si richiamasse al ius naturale
Con la dichiarazione che tutti gli uomini sono capaci di raggiungere la virtù mise in crisi i miti della nobiltà del sangue e della superiorità della razza; con la concezione che la schiavitù e la libertà dipendono dalla saggezza e dall'ignoranza minò alla base l'istituto della schiavitù. La patria del diritto non poteva ignorare il superamento della concezione aristotelica che condannava a rimanere schiavo chi schiavo era nato
Contribuì lo sviluppo di vari aspetti della scienza; perfino nella questione dell'analogia e della anomalia suggerì una via d'uscita con una soluzione conciliativa.

Quanto alla religione, offrì una giustificazione del culto tradizionale delle varie divinità, considerandole manifestazione dell'unica divinità universale Il pensiero di Seneca è intriso di un accentuato spirito religioso e spesso dà l'impressione di anticipare alcune intuizioni cristiane. Ma senza il concetto metafisico della creazione, come atto di un Essere trascendente che resta al di sopra del creato, è difficile sfuggire alle insidie del panteismo. Lo stesso Epitteto riconosceva che "se l'uomo è dio, Dio non è Dio".
Lo stoicismo romano non riuscì a sciogliere un'altra antinomia di fondo: il saggio, attento unicamente alla cura del logos che ha dentro di sé, non può ammettere affetti e passioni che turbino la sua apatia, ma l'uomo non può non amare se stesso, i figli, i parenti. Come si concilia l'apatia con la simpatia che il cosmopolitismo esige? Non è facile. Basti avere presente che anche Spinoza, dopo molti secoli, convinto che l'amicizia affettiva non sia conveniente all'uomo saggio, si appella ad un'amicizia razionale, che comporta non poche difficoltà, non ultima la privazione della libertà personale.
L'uomo è un essere complesso. La definizione aristotelica di "sinolo di materia e forma" potrà non piacere, ma è difficile rinnegarla. Chi lo considera un essere puramente razionale, o un soggetto solo edonistico, distrugge la sua natura di uomo.
Comunque lo stoicismo, pur con i suoi limiti, ha lasciato un segno nei secoli. Ancora oggi, di chi sa sopportare le sofferenze che la vita non risparmia a nessuno, si dice che lo fa stoicamente.

 

 

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